Maledetta lei – pensa l’Annina – incapace
di essere niente, tutto, e lo sguardo.
Sul letto le cosce aperte e quel ventre
pulsante che chiama la vita con urlo,
adagio. E l’Oreste impacciato
di tutto, non guarda, non può fare niente.
Ricorda sua madre l’Annina:
quel parto, il figlio in obliquo,
la mano aperta sul torace di un uomo.
E da dentro, il cuore nel cuore
le pulsa nel ventre, esausta la preme
un dolore perfetto. Quel figlio
le bagna le cosce, si apre stanco
alla luce dalla casa si carne.
È un pianto di vita che assolve il dolore
e la gioia è perfetta.
(15 Aprile 2012)
Ho scritto questa poesia sull’onda di suggestione di un passo del libro di Riccarelli, Il dolore è perfetto, dopotutto la letteratura si nutre di altra letteratura e a me piace questo modo di entrare in dialogo con essa.
“E lei mentre tentava di non affogare in quel mare di fuoco, immaginava l’urgenza di questo suo povero figlio imprigionato anche lui come il padre, ma in una galera di carne, stretta, avvolta di sangue, pulsante. Lo vedeva dentro di sè, spingere, le labbra e gli occhi chiusi per lo sforzo, minuscolo minatore della sua pancia, cercare la vita a forza di pugni. E subito dopo lo immaginava stremato, immobile, riprendere fiato prima di ricominicare l’assalto, verso la luce, e aveva paura che le sue mani ancora piccole si rompessero contro queste pareti troppo strette, maledetta lei, incapace di essere nulla, di espandere, di diventare aria, di aprirsi come fanno i fiori all’aria tiepida, alla luce, a un insetto”.
(U. Ricciarelli, Il dolore perfetto)
Alice S.