Quando un testo si dice letterario

Entro in classe, triennio, apro la finestra, prendo il gessetto.

Scrivo la data alla lavagna, 18 settembre… ma è sempre stata così alta? Mi alzo sulle punte e forse sento i ragazzi sorridere, i visi al riparo nelle mascherine. Ho gli abiti scelti con cura come Machiavelli raccomanda: mi preparo a questa nostra prima lezione di Letteratura. Ma indosso ancora i sandali (la stagione straordinaria perfino nella calura) senza il tacco e sarà questo a farmi percepire più bassa.

Avevo preparato una lezione sui primi documenti della letteratura in volgare, l’indovinello veronese, il placito capuano e qualche considerazione sul medioevo che avanza. Cambio idea mentre finisco di scrivere “settembre”. Mi viene una domanda più urgente: cosa vuol dire che un testo è letterario?

Scrivere un testo letterario ha a che fare con l’intenzione creativa? “Sao ke kelle terre…”? Il buon Petrarca credeva che la sua gloria sarebbe stata affidata alle sue opere latine, “Emma Bovary” è nato come romanzo di intrattenimento della cultura popolare per un pubblico femminile…

Quando allora possiamo dire che un testo appartiene alla Letteratura? Letterario un testo ci nasce o ci diventa?
La questione apre un dilemma più profondo che ha a che fare con il canone. Quali autori sono letterari e quali non lo sono? Chi lo stabilisce il canone? I lettori o quella critica letteraria, a detta di qualcuno, anche un po’ maschilista? Forse il canone si impone da sé, spontaneamente, come insieme di autori modello la cui esperienza letteraria si è rivelata significativamente capace di dare voce a un’epoca.

Jakobson sostiene che la qualità letteraria di un testo ha a che fare con la sua natura intrinseca, un testo nasce letterario perché ha in sé gli elementi giusti, ovvero qualcosa di interessante da dire e una forma adeguata con cui dirlo. Chi scrive un testo letterario è in grado di accendere le parole conferendo valore semantico anche al loro suono e al loro aspetto grafico, in sostanza al loro significante. Applicando questa posizione critica a una delle querelle che animano la poesia, possiamo affermare che non c’è qualcosa di cui sia più o meno lecito parlare, ma che tutto può diventare oggetto nobile di un testo poetico, purché sia scritto bene. Pensiamo alle Odi di Neruda dedicate ai più umili protagonisti della nostra quotidianità o al dialogo con la pietra nei versi della Szymborska.
Il discorso potrebbe addirittura essere allargato a un’altra questione che mi interroga fin dai tempi del liceo, quando ero alunna, e che negli ultimi anni mi è apparsa sempre più urgente: se in letteratura si può parlare di tutto, se ogni oggetto poetico ha una propria liceità a patto di essere cantato in una forma che aspiri ad essere potente nella sua espressività, incisiva nello stile, in una parola, bella; se la forma conta come o quasi più del contenuto, allora viene meno la categoria di moralità? L’arte può esaurirsi in una sostanziale autoreferenzialità estetica e sottrarsi a un ruolo educativo e didattico?

Jauss, a differenza di Jakobson, ritiene che il valore letterario di un’opera provenga dalla sua relazione con il lettore, dalla sua capacità di entrare in dialogo con un’epoca e una generazione, influenzandone (o descrivendone) i comportamenti. Insomma, la letterarietà di un testo si dà soprattutto in funzione del lettore e dentro una relazione con esso. Come l’esperienza educativa. Non è una ricetta a priori, non è un puro fatto di ispirazione. La letteratura è tale solo se la sua bellezza si sporca con la vita e solo se, come diceva Ende in La notte dei desideri, della vita è in grado di raccontare ciò che è molto in alto e molto in basso, mettendo in luce le scintille sublimi e le storture. La letteratura che racconta la verità ha nella verità medesima la sua ispirazione e la sua bellezza, ed è chiamata a raccontare la realtà nella sua interezza, attraverso un doloroso lavoro di scavo, (labor limae o “arte a levare” che dir si voglia) che si colloca al di fuori della categoria di moralità, la letteratura è amorale.

In ultima analisi, le posizioni di Jakobson e Jauss non sono in contrasto tra di loro, bensì si soffermano su aspetti complementari. Per affrontare la storia della letteratura con sguardo vivido, con coscienza vigile e inquieta, con cuore atto a cogliere le dissonanze e le lacerazioni, per seguire il filo, pure nel suo dipanarsi cronologico, ma soffermandosi dove si inceppa, per dissodare la zolla di terra smossa e portarne alla ribalta il segreto, perché i ragazzi imparino a non accontentarsi delle etichette facilmente classificatorie, ma sentano che la letteratura è qualcosa che brucia.

Come dice Gaarder, contano le domande più che le risposte, perché sono il tratto di strada non ancora percorso.

@aliceserrao

GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA

21 MARZO 2018 – GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA

“Sono nata il ventuno a primavera” scrive Alda Merini. Un verso che non si può non citare, oggi, primo giorno di primavera, Giornata Mondiale della Poesia.

La poesia venne a cercarmi – Neruda si rivolge a lei come se parlasse a una donna, dice – da una strada mi chiamava“. L’ispirazione poetica è volubile come Angelica: spinge l’uomo alla ricerca di una necessaria e inattingibile Bellezza, che affascina e fa smarrire. Orlando che non riesce a deflorare Angelica da innamorato si fa furioso.

Il cuore di quel fiore è il mio mistero” – questo verso della Spaziani è luminoso come una Stella polare e fa da guida alla Traversata dell’oasi.  Perché la ricerca della parola serve a dare la direzione più che la meta. Il desiderio dell’uomo è orientato a cogliere il segreto delle cose per circoscriverlo in una parola esatta e precisa, nitida ed evocante. Eppure è intrinseca nell’umano questa inesattezza lessicale, questa frustrazione del non avere mai detto abbastanza bene, e la parola, precisa come il Verbo e la Verità, sembra sempre sfuggire di un passo, essere avvicinabile per giri concentrici, solo per intuizione.

Chi ha lottato con l’Angelo porta sempre un segno – scrive la Spaziani. E la sua Giovanna d’Arco lo sperimenta. Il poeta sa che il dono si porta come una ferita originale, un chiodo della croce, brucia e dilania come la luce o una maledizione. Quod me nutruit, me destruit. D’altronde, si deve aver sentito la vita intensamente, essere stati molto in alto e molto in basso, per scrivere bene, ricorda Ende. La poesia bisogna sentirla nella carne, come un maschile che schiude, eleva e buca e manca nella sottrazione. Una volta un saggio mi disse: “se non ti fa soffrire, non è poesia“.

Al genio (un’ispirazione questa volta maschile) devi “prestargli subito la mano” scrive la Spaziani riprendendo quel ditta dentro dantesco. La voce scandisce dentro, tra le viscere e il costato, un dettato feroce ed urgente. Prevede che tu senta tirare i lembi alla ferita, la china la punta della stilografica mentre affonda, prevede che tu senta in uno stato alterato di coscienza che la vita è potente e sanguina e brucia. Perché tu possa così restituirla agli altri come una profezia, dopo che Apollo ha posseduto la Sibilla. Luzi invocava: “Cantami qualcosa pari alla vita“.

Perché la dai a tutti, tranne che a me, che ho bisogno di poesia?- allude la malizia di un poeta pescato da un’antologia. Perché a volte la poesia sta zitta. Tace per anni; non detta più una sillaba. Il silenzio ti fa temere la perdita del dono. “E poi si fa viva all’improvviso un giorno che ero al supermercato” mi ha raccontato qualche tempo fa la Valduga.

Quando non ci stai pensando più, viene a cercarti come se niente fosse, come una donna volubile da una strada: ti chiama per nome a un’ubbidienza. Può essere stata in letargo per anni, acquattata nel largo del respiro, ma appena la senti rifiorire in un endecasillabo, dare la lingua ritmica degli a capo a un pensiero, qualcosa in te si sazia e rasserena, come un dio che ti parla e soffia scandendo sillabe nel sangue. E allora lo sai d’improvviso: sei salva.

 

Ars Poetica

È finita – e credo lo dica per fare una prova
per vedere il suono, se taglia la bocca;
una parola all’inizio che non significa.
Quello che ti fa soffrire amore
non si estirpa, mi fa da chiodo e da casa,
amore chiedermi cosa venga prima
tra te e la poesia
è un vespaio terribile e nuoce
è come scegliere tra il sangue e il mio nome.
Amore la poesia è il modo in cui sto
con le cose. Onora il dono come tua madre.
Forse non ho saputo spiegare bene,
se hai sentito che brucia,
se dici – ti lascio è finita.

(4.10.2017)

Alice Serrao