Oggi, 30 Giugno 2024, ricorre il decimo anniversario dalla morte della poetessa Maria Luisa Spaziani. Questo articolo desidera essere un omaggio privato a una tra le più significative voci liriche del Novecento, non ancora adeguatamente valorizzata.
Il mio incontro con la poesia della Spaziani risale agli anni del liceo, quando un amico appassionato lettore di poesia, mi prestò l’antologia di testi della Spaziani curata da Baldacci, quella che reca in copertina quel “bel ritratto di spagnola” davanti al quale l’ha fotografata Dino Ignani e che, anni dopo, ho avuto il piacere di osservare dal vivo, nel soggiorno della sua casa romana.
Ero rimasta colpita da una poesia dedicata alla madre e l’avevo inserita nella tesina portata al colloquio della maturità. Ma anche le poesie tratte da “L’occhio del ciclone” erano state per me un canto ammaliatore di sirena capace di “gremire l’anima di favola” ad ogni rilettura. Il mare di Sicilia, quello dello stretto, presidiato da Scilla e Cariddi, abissale e insidioso, buio e fitto di mistero, ma anche luogo privilegiato da cui osservare la fitta stellata del cielo. E’ così che si orienta il poeta-viandante: segue stelle, lucciole e fuochi fatui, si lascia riassorbire dal mare ancestrale e primordiale delle origini e da quello amniotico della madre. Cerca di captare scintille di destino che gli confermino la necessità del suo viaggio. Tempestoso e romantico, forse a 18 anni mi sfuggivano alcuni riferimenti letterari di una poesia indubbiamente alta e colta, ma non mi sfuggiva la potenza immaginifica ed evocativa di quei versi. Un incantamento.
O forse, come spiegai più avanti negli anni alla stessa Spaziani: “un riconoscimento”. Questa la ragione della mia scelta nel volere scrivere su di lei e la sua opera la mia testi. Ho sentito che c’era nei suoi versi una vibrante verità che mi riguardava, in qualità di essere umano, come diceva Plauto. L’interrogativo sulla vita, che non esclude, anzi, comprende il confronto con la morte; il tempo ineluttabile che scorre e che può essere osservato dalla prospettiva immobile della poesia che scrive, scrive, erige monumenti perenni alla memoria, che conserviamo, ma che non ci dà più la linfa antica. E il grande interrogativo sul destino dell’uomo che non può non confrontarsi con il sacro dell’esistenza, considerare l’influenza che hanno su di lui gli astri e credere perdutamente alla propria libertà. Sono questi, alcuni dei grandi temi affrontati nelle diverse raccolte della Spaziani, che raccolte tutte nel Meridiano Mondadori, presentato a Roma in occasione del suo novantesimo compleanno, costituiscono sezioni di un canzoniere unitario.
La lingua della Spaziani è sempre sorvegliata e limpida, mantiene intatta la musicalità e la chiarezza del canto. Infatti, il registro altro, i riferimenti letterari e musicali di cui sono intessute le poesie, conferiscono un’eleganza bizantina ai testi anche quando si aprono alla sperimentazione. La quartina, insieme all’ottava e all’endecasillabo, conferiscono alla poesia della Spaziani la misura dentro cui ricondurre all’ordine il caos della realtà. Le scelte metriche, infatti, conferiscono alla poesia quel classicismo formale che tiene al riparo la Spaziani dalla confessione diaristica, anche quando l’occasione lirica diviene strettamente privata.
E’ questo, infatti, il caso di “La traversata dell’oasi” opera della maturità, uscita nel 2002 e vero e proprio diario in versi di un amore adulto. A quest’opera ho dedicato un ampio lavoro di lettura e ricerca che ho avuto poi modo di discutere con il prof. Langella in sede di laurea, ma anche di raccontare ed esporre alla “Piccola Fenice” di Varese, su invito del poeta Silvio Raffo, amico ed estimatore della Spaziani.
Ricordo benissimo il pomeriggio che, passeggiando per le vie della mia città, risposi quasi per caso a una chiamata da un numero non salvato in memoria. “Alice? Sono Silvio. Silvio Raffo. Sono a casa di Maria Luisa… cosa ne dice se…”
Tra i ricordi più cari che conservo della Spaziani, vi sono certamente l’incontro avvenuto al Parma Poesia Festival del 2012 e il suo invito a Roma dove abbiamo colloquiato amabilmente, nel salotto della sua casa romana. I fiori al davanzale, i libri sul tavolino e soprattutto il cuore in gola mentre le mostro il lavoro preliminare sulla “Traversata”. Lei dice: “Ha scelto il libro a cui sono affezionata di più”. Mi pento di non averla registrata, quella coversazione, ma ai tempi non avevo ancora a disposizione la gioia tecnologica d’un i-phone.
Alcuni testi della “Traversata” mi sono riecheggiati dentro negli anni, come quello in cui si dice, una verità gnomica, per cui gli amori avuti negli anni costituiscono una scala in cui, l’ultimo gradino e non il primo, è il più importnate perché risignifica tutti i precedenti. Così esso illumina di senso a posteriori tutto quanto ha portato fino a lì. Ci ho pensato il giorno che mi sono sposata.
D’altronde, per Spaziani, la poesia deve fare proprio questo: cogliere l’ultrasuono con radar da pipistrello, ascoltare il risuonare cosmico dell’universo e tradurre per tutti il suo linguaggio segreto. La fedeltà alla poesia è questo continuo bisogno di dire, di far risuonare nelle parole esatte e insufficienti il mistero della risacca nei gusci di conchiglia. Dunque ho indagato questo: a partire dalle spie del linguaggio, come insegna Spitzer, ho cercato di aprire il segreto poetico della Spaziani, di addentrarmi nel sommerso. “Il cuore di quel fiore / è la corrosa medaglia del mio viso / il mio mistero.”
Le poesie della “Traversata” raccontano lo spostamento da un punto ad un altro, solo che in mezzo non c’è, come di convenzione, il deserto, bensì l’oasi: lo spazio della gioia. Nelle poesie di Spaziani, infatti, così come nella sua vita, si percepisce sempre il desiderio d’essere protagonisti nell’avventura della vita, timonieri nel mare periglioso, attraversati da quella joy de vivre che ci rende positivi nel mondo.
A distanza di dodici anni dal nostro ultimo incontro, conservo ancora quella sensazione che la compagnia di Maria Luisa Spaziani emanasse la statura culturale dei grandi intellettuali del Novecento. Un allure che pochi hanno, sebbene spesso più noti. Le riusciva, indubbiamente, di fare ciò che per lei doveva saper fare un poeta: “Dire cose importantissime, senza avere l’aria di dire cose importantissime”.
A noi, non resta che testimoniarlo.
Alice Serrao