“Linea intera, linea spezzata”

Ho letto l’ultima raccolta di Milo De Angelis, “Linea intera, linea spezzata” edita da Mondadori nella collana Lo Specchio (2021), condivido qui di seguito la mia recensione.

“Ma tu? Sei rimasto l’inquieto pulcino/… o sei riuscito/ a far pace con la vita?” “Mister non lo so, ma sono qui, /sono tornato per saperlo.”

M. De Angelis, Linea intera, linea spezzata

Linea intera, linea spezzata è un libro senza redenzione. 

L’ultima raccolta di Milo De Angelis, poeta tra i più significativi del nostro tempo, è un viaggio a ritroso, un dialogo con i fotogrammi più incisivi della giovinezza. La poesia d’apertura, che apre la sezione “Linea intera, linea spezzata”, infatti, esordisce con “Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere / in un tempo che hai misurato mille volte”. Il lettore sale insieme all’io lirico sul tram e si prepara ad accompagnare il poeta lungo un itinerario della memoria, scandito da luoghi d’anima e incontri, ombre e “spettri” del passato, che scorrono come fotogrammi di vita al finestrino. Ma “tu guardi l’orologio”, indicatore del tempo, mentre ci immergiamo in un universo che si ripete in parallelo: qui tutto è cristallizzato, “è come sempre / ma non è di questa terra”. Potrebbe essere un inizio cinematografico, l’immersione nella dimensione onirica, nel già accaduto.

Inoltrandoci nella lettura, troviamo conferma del nostro essere in un tempo al di là del tempo, per cui “la collisione [dell’autoscontro] durerà per sempre” e le vicende che si susseguono nel Luna Park sono “nuove” e “antiche” e anche la scelta delle parole asseconda quella galleria degli specchi, al termine della quale “nessuno ti attende” e “la notte…ti attende”. Il viaggio nella memoria si affronta in solitudine, per trovare conferma che tutto è ancora lì, dove lo abbiamo lasciato, come lo ricordavamo, che è esistito e che, come in uno specchio, possiamo riconoscerci, prima di fare “con la mano un gesto/ che sembrava un saluto”, invece è un congedo.

Le poesie della seconda sezione, “Nove tappe del viaggio notturno”, sono visibilmente inserite in un disegno unitario: “Hai guardato…”, “…li hai visitati tutti…”, “hai trovato…”, “sei entrato…”, “Hai camminato e sei giunto”, “Cammini stasera…”, “ogni cosa cammina oscuramente…”, “Poi entri…ti immergi”, “Ma tu sei vissuta veramente”. Qui, dentro i passi che scandiscono la sera, incontriamo nuovamente la città, Milano, tanto cara al poeta e già più volte descritta nelle raccolte precedenti. E’ una sezione di attese e scomparse, di malinconie, nottambule come i gatti, e di silenzio che anticipa “i sommersi” delle sezioni successive. Permangono i gesti della mano e quella “parola prossima al nulla”. Il nulla a cui la vita sembra doversi, per destino, quietamente rassegnare. L’unica salvezza possibile è invece in quel “Ricordiamo, ricordiamo esattamente” che si legge nella terza tappa, dove è luminosa la chiusa dei fantasmi che si aggrappano a ciò che è vivo: “ ‘Vuoi andartene o restare?’ / ‘Voglio restare qui, mi manca solo ciò che palpita vicino.”

Se la terza sezione, “Dialoghi con le ore contate”, è contraddistinta da un linguaggio più disteso, che sperimenta una sintassi più vicina alla prosa, la sezione conclusiva, “Aurora con rasoio”, si distingue, invece, per lo slancio verticale in cui si conferma l’altezza della poesia di De Angelis. Qui il poeta ci accompagna nella selva dei suicidi e con i suoi versi spezza il ramo e dà voce ai personaggi stabilizzati nel ricordo, un carosello di incontri decisivi, in cui si riconoscono l’attenzione al gesto atletico e nomi e luoghi d’affezione. Colpisce ancora l’insistenza sul nulla in cui tutto sembra doversi risolvere: “Tutto finirà nel nulla” e quel “costringeremo il nulla a svelarsi” che pare adombrare la stessa epifania di “Forse un mattino andando…” di Ossi di seppia di Montale. 

Potrebbe essere, allora, proprio questa la ragione per cui ricorre spesso la parola “tremendo”: perché tremenda è l’intensità della vita, insopportabile, così come accade in “R.B”, dove si legge “Vedevi troppo. Vedevi l’assoluta metà /di ogni cosa e l’immenso di una mano”; è la realtà che arriva troppo forte ai “sensori” umani, centuplicata e violenta, se si ha la sensibilità di recepirne gli stimoli in una frammentazione non intelligibile, se “la luna non concorda / con il mio battito terrestre” e “L’intero ti fa sanguinare”. 

Attraverso i due “Exodos”, letteralmente strada in uscita, si arriva, poi, ai testi conclusivi della raccolta; “Filastrocca del nome perduto” sembra dirci che anche la poesia, con i suoi versi e la sua metrica dolorosa, non è in grado di salvare il nome, la traccia del passaggio umano, “i nostri vani / istanti di poesia affonderemo / nella lingua morta … / e non diremo il nostro/ nome il nostro respiro scritto in sillabe, / non diremo, /non diremo”. Come altrove, anche qui, il senso è rimarcato e intensificato dalla ripetizione dei sintagmi, che sottolineano una sostanziale impossibilità di dire, una ineffabilità intrinseca, o, come in “Alla”, una mancanza strutturale, in cui la parola “orfana” rimarca una condizione antropologica. Così, anche la poesia non basta a redimere la vita, a darle l’occasione di durare in un altrove. E la raccolta intera si conclude con “morte”, una parola definitiva.  

Alice Serrao

La Divina Differenza, di Silvio Raffo

Chiunque desideri accostarsi alla poesia di Maria Luisa Spaziani, mia poetessa d’elezione, può efficacemente affidarsi alla monografia di Silvio Raffo, La Divina Differenza, LietoColle, Como 2015.

Amico ed estimatore della Spaziani, Silvio Raffo passa in rassegna tutte le raccolte poetiche edite, precedentemente consacrate nel Meridiano (Mondadori 2012, a cura di G. Pontiggia e di P. Lagazzi), proponendo preziosi spunti critici e testi rappresentativi. Ciascun capitolo si configura come strumento guida alla comprensione di una raccolta, della quale suggerisce i temi fondamentali e una loro possibile interpretazione, corroborando la spiegazione con la lettura diretta del testo.

Alla base delle intenzioni di questo libro c’è una consapevolezza dichiarata fin dal sottotitolo e accompagnata da una serie di riflessioni nella Premessa, ovvero: l’ispirazione della Spaziani viene da una Musa lirica. Silvio Raffo, infatti, ribadisce più volte che ci troviamo davanti ad una poesia armoniosa ed estremamente musicale, classica nella forma ma sorprendentemente moderna nella capacità di trasmettere contenuti, alta nel tono e profondamente cosciente nell’impianto filosofico e matapoetico. Insomma, nel panorama odierno, in cui la poesia sembra subire la stessa crisi che scuote il mondo ed essersi impoverita, riducendosi a mera didascalia del quotidiano, la Spaziani conserva indiscutibilmente il dono di una parola magica, radicata nella capacità di sentire il sublime.

Condivido con voi, cari lettori del mio blog, una delle pagine più belle di questo volume. In queste parole si ritrova un energico messaggio positivo, un’esortazione all’essere realmente protagonisti della propria vita, determinati a lasciare un segno, anche piccolo, del proprio passaggio in questo mondo.

L’indifferenza è inferno senza fiamme.
Ricòrdarlo scegliendo
tra mille tinte il tuo fatale grigio.
Se il mondo è senza senso
tua è la vera colpa.
Aspetta la tua impronta
questa palla di cera.

(M.L. Spaziani)

Vi si concentra, in una densità quasi esplosiva, in un icastico nitore “ermetico” e più ancora profetico, il messaggio da imprimere a lettere di fuoco nelle menti […] della nuova generazione. Una bomba di energia, di potenza analoga al monito dickinsoniano “To be alive is Power”: essere vivi  è potere. L’antidoto – l’unico possibile – all’apatia e all’inerzia in cui molti secoli fa l’Anonimo del Sublime identificava la radice dell’infelicità e del male. Non la divina indifferenza montaliana, ma la divina “differenza” del libero arbitrio: la scintilla di una superiore consapevolezza, la scoperta di appartenere al cosmo dell’individuo che si riconosce “docile fibra dell’universo”. […]
È grazie a voci come questa che la Poesia può ancora dirsi vita e la Bellezza salvare il mondo.

(S. Raffo, pp. 51-52)

 

Alice Serrao

Articolo su ApprodoNews cita questo post

Galleria del Vento, L. Cannillo

Oggi è il primo giorno di primavera, ma è anche la Giornata Mondiale della Poesia, e per questo voglio consigliare un libro: Galleria del Vento, di Luigi Cannillo (La Vita Felice, 2014).

Appoggiare la mano sopra il bianco della copertina è come appoggiarla sulla pancia di un corpo vivo, si sente il diaframma che si alza e si abbassa, si sente il respiro. Le poesie di questo libro, divise in quattro sezioni, sono infatti attraversate da due correnti di vento. Una che entra, che si chiude nel petto dopo aver inspirato il lutto e il dolore, la fatica implicita alla nostra presenza nel mondo, è il peso grave delle cose che tengono il corpo come un filo a piombo, perpendicolare all’orizzonte della terra e del cielo. L’altra è il brivido che scorre veloce lungo lo sterno, la corsa dei globuli che hanno ossigenato il sangue, è la leggerezza riconquistata delle cose dopo una ripartenza, è tutto il fiato cattivo buttato fuori per rifare ordine e spazio, è la fuoriuscita del respiro di quando ci si rilassa e si riconquista un equilibrio, un’apertura alla vita. Sono due correnti che si susseguono disegnando un cerchio, prendere e tenere il fiato, sistole e diastole del battito, un palpitante alternarsi di due movimenti, contrarre e dilatare, un’andata e ritorno continui.

Scrive: «Dobbiamo andare, vieni,». Scrive: «verso la porta dell’origine / Nel nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi madre tramandata / nella consolazione, la marea / che sutura e riapre la ferita».

La prima sezione contiene le poesie dedicate alla madre morta, «Dove stai andando, così di corsa? / Non c’è voce umana a raggiungerla / né sguardo che la insegua / se una forza contraria alla vita / la convoca e spinge / come volando, / freccia scoccata nella nebbia». Quasi un’Euridice. La presenza materna è viva negli oggetti, nella memoria del suo ordine che viene tramandato e ripetuto. «Qui ogni parete aspetta di aprirsi al ritorno / Adesso intanto si difende rapida / confina un territorio, / lo nasconde / e vedova si chiude nel dolore». Sono versi in cui all’accorata interrogazione «Vedi» fa eco sempre la voce rassegnata del figlio: «Tu non lo puoi vedere». È una madre che non rincasa e tiene in sospeso il figlio che l’aspetta perché  l’ora è tarda, un’attesa vana e inevitabile che rovescia i ruoli: «Ripete in ogni pagina mamma / ormai è buio, è ora di tornare».

Si apre lo spazio misterioso dell’aldilà, l’intimo avvertimento del sacro, la domanda che bisogna gettare avanti come un seme, anche se non ha risposta immediata; il verso d’apertura della raccolta è infatti proprio: «Chi scuote questa galleria del vento»? simbolo del viaggio in cui ci troviamo esposti ai venti-eventi e in cui «sulla pelle vetro si alterna / a velluto». La volta del cielo intanto ci offre uno zodiaco luminoso, per suggerirci oroscopi e coordinate per un provvisorio orientamento. La seconda sezione raccoglie infatti poesie sui 12 segni; costituiscono lo sguardo che si alza dopo aver fissato la terra luttuosa. «A lui invisibile sotto pelle / dobbiamo il segno dell’altrove / la fierezza del passo la lettura / delle nuvole in viaggio / […] / Convivono l’anima e gli zoccoli / le braccia danzanti e la coda / tendono insieme l’arco / della caccia, prima di allontanarsi».

Assenza e presenza si bilanciano e susseguono, chiamandosi l’un l’altra; il corpo, protagonista della terza sezione, è il termine di una identità lirica che cerca di entrare in contatto con il “tu”. È il tentativo di intrecciare con l’altro quel «fiocco delle gambe», condividendo il viaggio, prendendosi umanamente a cuore l’altro: «Salvami dice, non ti allontanare / […] / Proteggi il viaggio nelle tenebre / solleva il mio tempo sulle spalle / difenderò io il tesoro del sonno». La notte è, di fatto, il momento privilegiato dell’incontro, quando una perfetta intimità sembra davvero possibile, tutelata dalla tenebra può compiere a pieno la propria luce e fiorire, prima che l’alba li separi, come già raccontavano le poesie della tradizione classica sulla separazione degli amanti. «il cerchio del respiro / celebra il possesso perfetto / L’anello si sfilerà al risveglio / ma questa notte ci congiunge sposi». Ma il “tu”, oggetto di desiderio, è anche termine di conflitto, residente in un territorio da porre sotto fiamme ed assedio; un avversario da combattere, capace tuttavia di restituire quasi una grazia nel gesto luminoso del saluto, nel bagliore degli occhi. Pare di scorgervi una rimembranza stilnovista. «So cosa significa combattere / l’avversario invisibile / i colpi perduti nell’aria / I corpi consegnati alla stretta dell’altro»; «il nostro sguardo che si cerca / e racconta di quando gli occhi / fissano per la prima volta / e spalancati guidano la testa / […] / come se l’altro / sguardo fosse stella».

Infine la sezione conclusiva, Berlino, città in cui il poeta torna spesso: «Tutto convive grazie all’uomo, / si scolpisce anche l’erba, dicevi / Ritorneremo, dopo ogni attesa / i cancelli apriranno alla festa». Ancora una volta contano i luoghi e le presenze evocate. Ancora una volta «il tempo che flagella / impone una rinascita». Ci si chiede «Cosa rimane di tutto il cammino» e ci si risponde che «Tutti guardano in alto, cercano una presenza, mentre qui sulla pianura / pulsa riflessa la stessa luce / la moltitudine si raduna e disperde / come stormo in volo, aria». Un’ottima prova poetica, in cui la nitidezza del verso trasmette molta profondità.        

                                                                                                                                                                   Alice Serrao